La Dead Internet Theory... Chi sta uccidendo la rete?
- Luca Bacini
- 5 ott
- Tempo di lettura: 3 min

E se Internet fosse già morto e nessuno se ne fosse accorto?
Sembra la trama di un film distopico, eppure questa domanda è al centro della Dead Internet Theory, una provocazione che ribalta il modo in cui guardiamo la rete.
La teoria è nata nel 2021 in un forum underground chiamato Agora Road's Macintosh Café, in cui si è iniziato a discutere di come dal 2016 Internet abbia iniziato a perdere la sua anima umana. Secondo questa visione, la rete si è trasformata in una copia artificiale popolata da bot e algoritmi capaci di generare testi, immagini e conversazioni in grado di imitare la presenza umana con sempre maggiore precisione.
Quello che può sembrare un delirio paranoico trova però conferme in alcuni interessanti numeri. Nel 2023 il Bad Bot Report di Imperva ha certificato che quasi metà del traffico globale della rete provenisse da bot. Una parte svolge funzioni legittime e utili, come i crawler che indicizzano i siti per i motori di ricerca, ma la massa complessiva racconta una rete dove la voce umana rischia di essere sommersa da un’invasione di contenuti automatici.
Alcuni teorici sono arrivati addirittura a ipotizzare che, entro il 2030, la quasi totalità dei contenuti sarà generata da intelligenze artificiali. Una stima senza fondamento scientifico, ma che fotografa perfettamente dove stiamo correndo a tutta velocità.
Questa velocità ha coinvolto anche il modo in cui ci esprimiamo con la nascita di nuove parole che si sono imposte prepotentemente nell’uso comune. L’anno scorso l'Oxford Dictionary ha scelto "brain rot" come parola dell'anno, un'etichetta che racconta il deterioramento mentale causato dal consumo ossessivo di contenuti ripetitivi e vuoti.Tra le altre candidate in gara c’era anche la parola "slop", un termine che definisce la massa informe di testi e immagini prodotta da modelli generativi che riempie i nostri feed di contenuti apparentemente credibili e che si moltiplicano alla velocità della luce.
Per fare un esempio di questo concetto basti pensare che, nel 2024, negli Stati Uniti, Facebook è stato invaso dal meme chiamato "Shrimp Jesus", un insieme di immagini surreali di Gesù mescolato con gamberi e crostacei, tutte rigorosamente generate da modelli AI.
Migliaia di utenti hanno reagito con commenti autentici, scrivendo "Amen" come se si trovassero davvero davanti a immagini sacre vere.
Questo episodio mostra il cortocircuito che si è creato, una AI che genera un'immagine assurda e le persone rispondono con emozioni genuine, e il confine tra reale e artificiale sparisce senza che nessuno se ne accorga.
Lo stesso Sam Altman, CEO di OpenAI ha confermato la portata del problema, ammettendo pubblicamente che ormai distinguere i post scritti da persone reali da quelli creati da bot è diventato complicato anche per chi lavora in quel settore. Quando a dirlo è la voce più autorevole del settore, il tema smette di sembrare un gioco e diventa una questione che riguarda la fiducia, la trasparenza e la qualità stessa delle conversazioni digitali che portiamo avanti ogni giorno.
A questo punto il discorso tocca profondamente chi crea contenuti e gestisce brand e presenza online. A chi stiamo davvero parlando quando pubblichiamo un post, un reel o una newsletter? E come facciamo a farci riconoscere in un ambiente in cui miliardi di voci automatiche imitano l’umano senza esserlo.
Al momento la Dead Internet Theory resta una provocazione ma che sta dando vita ad un allarme concreto. La rete rischia di trasformarsi in uno spazio freddo e impersonale, in cui creatività ed emozione autentica diventeranno risorse sempre più rare e preziose.
Che sia davvero giunto il momento di attaccare gli elettrodi e dare alla Rete una bella scarica per riportarla in vita?