I nostri telefoni ci ascoltano? O è solo una suggestione pericolosamente realistica ed inquietante?
- Luca Bacini
- 20 set
- Tempo di lettura: 3 min

Quante volte, dopo una semplice chiacchierata o una telefonata, ti è capitato di vedere comparire sui social annunci pubblicitari incredibilmente attinenti agli argomenti appena discussi? Oppure hai appena nominato una persona e poco dopo ti compare nei suggerimenti di amicizia di Facebook? E, per finire, quante volte, dopo aver parlato di un prodotto, come per magia, eccolo lì, sponsorizzato in bella vista nel tuo feed di Instagram.
“Coincidenze? Io non credo”, come diceva l’esperto di misteri Adam Kadmon.
La verità, come spesso accade nel vasto mondo della tecnologia e del digital marketing, è un intricato intreccio di miti, sospetti e innovazione. Le grandi aziende come Meta, Google, Amazon e Apple hanno sempre negato che i loro dispositivi ascoltino le nostre conversazioni private per scopi pubblicitari.
Ufficialmente gli algoritmi usati per mostrarci annunci targettizzati si basano su enormi quantità di dati che sono frutto di ricerche, analisi, interazioni social, geolocalizzazione, e persino informazioni incrociate tra amici e contatti. Tutto questo, ovviamente, raccolto dietro il velo, non sempre così trasparente, dei consensi dati quando installiamo o usiamo app sul nostro smartphone o visitiamo siti web accettando i famigerati cookie.
Ma allora perché abbiamo questa sensazione di essere “spiati”?
In realtà, dietro a questo fenomeno c’è un meccanismo chiamato “profilazione predittiva”.
Gli algoritmi riescono a incrociare dati apparentemente scollegati e a prevedere i nostri interessi meglio del previsto, generando una sensazione quasi “telepatica”. È come se il telefono e lo schermo scorressero il nostro pensiero, ma è solo matematica e scienza dei dati, niente magie o “spionaggio” digitale a causa dei microfoni accesi.
Anche se, qualche volta il mito potrebbe nascondere un fondo di verità inquietante.
Nel 2024, ad esempio, è emerso il caso di Cox Media Group negli Stati Uniti, accusata di aver sperimentato una tecnologia di “active listening” capace di utilizzare i microfoni degli smartphone per migliorare la pubblicità targettizzata. Un documento interno, trapelato alla stampa, aveva sollevato grande clamore anche se l’azienda aveva poi dichiarato di non aver mai utilizzato quella tecnologia su larga scala e che il progetto fosse ormai abbandonato.
E le telefonate? Quando parli al telefono, il tuo dispositivo ascolta davvero le conversazioni per mostrarti poi contenuti pubblicitari ad hoc?
Tutte le evidenze scientifiche e legali dicono di no. Il sistema operativo e le policy di iOS e Android impediscono l’accesso al microfono durante una chiamata, e i dati gestiti dagli operatori telefonici non possono essere condivisi per fini pubblicitari senza violare le normative sulla privacy.
In Europa, il GDPR pone vincoli rigidissimi, qualsiasi intercettazione audio non dichiarata costituirebbe una violazione grave e sanzionabile. Di conseguenza l’utilizzo di certi dati per la creazione di campagne di marketing dovrebbe essere solo frutto di tracciamenti digitali e non di intercettazioni audio.
Ma quindi, qual è il quadro finale?
Siamo di fronte a un mix complesso, da un lato la potenza degli algoritmi di profilazione, dall’altro una crescente attenzione a cosa le app e le piattaforme possono fare con i permessi che concediamo loro.
La sensazione di essere ascoltati è forte e in parte comprensibile, ma ad oggi nulla è dimostrato. Resta però fondamentale mantenere alta la guardia sui permessi delle app, sulle nostre abitudini digitali e sulle tracce che lasciamo durante le nostre attività online, tracce che rivelano ben più di ogni parola pronunciata.
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